Videogiochi e Turismo Macabro

(autore: Ambra Ferrari)

Le statistiche ci mostrano come alcuni turisti siano interessati a visitare luoghi di disastri, storici o recenti. Alcatraz, Auschwitz, Hiroshima, Ground Zero, l’Isola del Giglio dopo l’incidente della Costa Concordia, e persino Londra sulle orme di Jack lo Squartatore, rappresentano tutte mete ambite di quello che viene definito Turismo Macabro, Thanatourism (dal greco Thanatos, Morte) o Dark Tourism. 

Contrariamente a quanto si può pensare, le ricerche mostrano come a spingere questi turisti sia il desiderio di commemorare la tragedia più che una semplice volontà di voyeurismo (i.e. “soddisfazione di morbosa curiosità”). Ma nella società contemporanea, il turismo macabro si configura anche come un memento mori, “la vita diviene apparente solo sullo sfondo della morte”: questa connessione tra vita e morte era un tempo affidata alle braccia e alle parole della religione, e si faceva apparente quasi quotidianamente nelle zone più povere dei paesi sviluppati. Oggi, grazie al generale benessere dei paesi occidentali e ai progressi di scienza e medicina, il contatto con la morte ci viene fornito in grandissima parte dai telegiornali, i quali però ci forniscono uno sguardo distaccato e mediato dalla distanza fisica e psicologica che si interpone tra lo spettatore e la tragedia, che rimane dietro lo schermo passivo del televisore. I luoghi di disastri si configurano invece, in forma privata, diretta e più strettamente intima, come luoghi di mediazione, riflessione e dialogo con il tabù per eccellenza, cioè con la nostra stessa morte e il suo senso. Eppure, non sempre sono raggiungibili così facilmente.

Il videogioco rappresenta una risorsa fondamentale anche in questo contesto, grazie alla sua capacità unica di coinvolgere in prima persona negli avvenimenti rappresentati. Parliamo del concetto di Immersione, definita da Murray come “la sensazione di essere completamente circondati da un’altra realtà […] che richiama tutta la nostra attenzione, tutto il nostro apparato percettivo” (Murray, 1997). Quando un giocatore è presente nel gioco “vede” tramite gli occhi del personaggio, iniziando a costruire una relazione non solo con gli elementi fisici, ma anche con gli elementi sociali del gioco. 

Ne è certamente un esempio il Progetto Chernobyl VR, creato dallo studio polacco The Farm 51 per essere un’esperienza che combinasse in sé aspetti informativi e narrativi. Grazie a questo videogioco, il giocatore può esplorare ciò che rimane dell’area del reattore di Chernobyl e della città fantasma di Pripyat, scannerizzate in digitale dai membri dello Studio qualche anno prima della guerra in corso.

Oltre a portarci sui luoghi del turismo macabro, anche quando sono irraggiungibili nella vita reale, il videogioco può fare un passo ulteriore: permetterci di vivere eventi storici o romanzati che, fortunatamente, non ci hanno coinvolti in prima persona. 

Tra le fila di questo particolare sottogenere ci sono, prevedibilmente, anche titoli molto discussi, come 8:46. Questa brevissima esperienza in realtà virtuale narra gli eventi dell’11 settembre così come sono stati vissuti dagli occhi di un ipotetico impiegato della Torre Nord. Il titolo si riferisce proprio all’ora esatta dello schianto di uno dei due aerei. Mentre alcuni quotidiani, come il New York Daily News, hanno definito questo titolo come “disgustoso”, diversi giocatori si sono schierati a favore dello sviluppatore, Anthony Krafft, lodandolo per aver “aiutato a rendere questi eventi più reali per coloro che non avevano idea di cosa fosse realmente accaduto e cosa significasse trovarsi lì”. 

E in effetti, secondo uno studio pubblicato nel 2010 sulla rivista scientifica Social Psychology and Personality Science, pare che la motivazione per il consumo di questi contenuti (videoludici ma anche televisivi) non sia solo il desiderio di empatizzare con le vittime, ma anche uno sforzo inconscio per proteggere ed educare se stessi nei confronti di un pericolo che potrebbe coinvolgerci in futuro. 

Ne sono esempio le serie di videogiochi giapponesi Disaster Report e Raw Danger, che raccontano le peripezie dei protagonisti per sopravvivere a disastri naturali (uragani, terremoti, tempeste di fulmini e incendi) fino all’arrivo dei soccorsi. In questi casi, mettere alla prova le proprie capacità di ragionamento, decision making, e prontezza di riflessi diventa il fulcro della narrazione, in un’ottica di crescita personale e sfida di se stessi. 

D’altro canto, è così che si origina l’apprendimento: la mente simulativa è considerata una disposizione umana generale, attraverso la quale le persone sono in grado di anticipare i fenomeni futuri e, conseguentemente, adeguare le strategie per affrontarli efficacemente, creando (cioè apprendendo autonomamente) nuove soluzioni per nuovi problemi. Il tipo di apprendimento richiesto dai videogiochi richiede proprio ciò che si definisce comprensione incarnata (i.e., embodied understanding), tramite cui i giocatori sondano, ipotizzano, riprovano, pensano usando (quasi) tutti i loro sensi. 

Anche in questo caso, i videogiochi diventano fonte di arricchimento valoriale e cognitivo, permettendoci di vivere sulla nostra pelle ma in totale sicurezza tutto l’impatto delle emozioni negative come tristezza e paura, così difficili da sperimentare liberamente e controllare nella vita di tutti giorni, e stimolando, così, la nostra intelligenza emotiva.

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